Il nome «elfi» (singolare álfr, plurale álfar) ha radici antiche e affonda nell’etimologia indoeuropea. È collegato alla radice ALBH-, che significa «risplendere» o «essere bianco» (da cui anche il latino albus). Nella mitologia nordica, gli álfar sono una categoria di esseri sovrannaturali dotati di natura divina.
Questa sacralità è confermata sia dalla loro frequente associazione con gli dèi (Æsir e Vanir), sia da fonti che parlano di sacrifici loro dedicati. Le saghe vichinghe, ad esempio, descrivono riti autunnali di carattere privato, officiati da donne, legati alla fertilità. Un’usanza era quella di cospargere con il sangue di un bue i tumuli abitati dagli elfi — una pratica che ricorda le offerte (burro, grasso, monete, spille) lasciate nelle älvkvarnar svedesi, piccole cavità scavate nella pietra risalenti all’Età della Pietra, considerate in passato pietre sacrificali.
Il culto degli elfi ha molti punti in comune con quello delle dísir, divinità femminili legate alla fertilità e alla famiglia. Ciò suggerisce che almeno una parte della figura dell’elfo fosse connessa agli spiriti ancestrali, custodi della stirpe. Non a caso, si credeva che gli elfi dimorassero nei tumuli, come le anime dei defunti. Questo legame con il mondo dei morti è rimasto vivo nel folclore scandinavo.
In origine, il termine era maschile. Tuttavia, le leggende norrene includevano anche figure femminili, come le ljósálfar (“elfe bianche”).
Prima del Novecento, questa parola in italiano non era usata perché elfi, nani e troll sono parte, appunto, delle culture germaniche. Le figure più simili del folclore italiano sono chiamate folletti, spiritelli, gnomi e fate, cioè tutte quelle che chiameremmo ora creature del piccolo popolo.
La prima traduzione integrale italiana del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien uscì nel 1970 (per Rusconi, con traduzione di Alliata e Principe). Il termine elfo in italiano è quindi un calco di traduzione del termine inglese moderno “elf”, che nell’opera di Tolkien si riferisce a figure ben diverse dai folletti e dalle fate. Si tratta di una delle razze principali della Terra di Mezzo, si distinguono dalle altre due razze, gli Uomini e i Nani, soprattutto per la loro immortalità (in realtà è una longevità).
Tolkien utilizza Elf sia al maschile che al femminile. Come scritto, la parola “elf” deriva dal proto-germanico albaz, e nel tempo ha dato origine a termini simili in molte lingue germaniche (tedesco Alp, norreno álfr, inglese antico ælf). La parola inglese elf deriva da un termine anglosassone più spesso attestato come ælf (il cui plurale sarebbe stato *ælfe). Nell’ anglosassone, per gli elfi femminili venivano usate forme separate (come ælfen, a partire dal comune germanico *ɑlβ(i)innjō). Tuttavia, durante il periodo del medio inglese, la parola elfo arrivò abitualmente ad includere anche gli esseri femminili. I principali affini germanici medievali (parole di origine comune) dell'elfo sono alfr in nordico antico, alfar al plurale e alp nell'alto tedesco, alpî al plurale, elpî (accanto a elbe femminile). Queste parole devono essere state ereditate dal ceppo germanico comune, l’antenato della lingua inglese, tedesca e scandinava: si torna così alle forme germaniche comuni accennato all’inizio che devono essere state *ɑlβi-z e ɑlβɑ-z. Queste parole provengono tutte da una base indoeuropea albh-, e sembrano essere collegate all'idea di bianco. La parola germanica presumibilmente in origine significava “persona bianca”, forse come eufemismo. Jakob Grimm pensava che il candore implicasse connotazioni morali positive e, annotando lo ljósálfar di Snorri Sturluson, suggeriva che gli elfi fossero divinità della luce.
Tolkien, nel suo Legendarium, ha creato un mondo dove gli Elfi sono esseri immortali, esteticamente perfetti, sia maschi che femmine. «… saranno le più belle di tutte le creature terrene, e avranno, concepiranno e partoriranno più bellezza di tutti i miei figli; e avranno la più grande beatitudine in questo mondo», dice l’Ente Supremo, Ilúvatar, nel Silmarillion. In loro risplende ancora la luce delle stelle che ammirarono alla loro nascita e che rappresenta la loro natura divina, la loro connessione con il regno beato di Valinor e il loro ruolo nella storia di Arda. Tolkien infatti descrive gli elfi come creature di una bellezza ultraterrena, con voci melodiose e cristalline, abili in tutte le arti creative, riportando i canoni antichi nella narrativa.
Tuttavia, nei testi in lingua originale, l’autore non distingue tra maschio e femmina nella parola Elf — dal momento che il termine in inglese non ha genere, come d’altronde la stragrande maggioranza dei sostantivi. Sono i nomi propri e i ruoli narrativi a rivelare il genere (es. Galadriel è una elfa, Legolas è un elfo). Ha sempre scritto semplicemente elf anche per personaggi femminili. Ad esempio, nella lettera 345 Tolkien scrive: «Arwen was not an elf, but one of the halt-elven who abandoned her elvish rights» («Arwen non era un’elfa, ma una dei mezzielfi che rinunciò ai suoi diritti elfici»).
Filologo, scrittore e consapevole dell’importanza delle parole, Tolkien per primo ha usato “Ent-wives” per le Entesse, “le mogli degli Ent”, non ha esitato a inventare Shelob come nome proprio di una grande creatura simile a un ragno femmina, combinando la parola inglese “she” (una “femmina”) e la parola dialettale inglese “lob” (“ragno”), giustificando il tutto come un termine in Ovestron (la Lingua Comune) che significa appunto “ragno femmina”. Però non ha mai usato il termine “elvess” o “elfess” (entrambi derivati dall’anglosassone ælfen per indicare le elfe come riportato sopra). Questo perché lo riteneva probabilmente arcaico e soprattutto ridondante. Sicuramente non avrebbe mai utilizzato un termine come “she-Elf” (“elfo femmina”) che è un termine relativamente moderno e informale per riferirsi alle elfe soprattutto in uso nell’inglese americano.
Tolkien usa, invece, il termine elf-maid o elf-maiden (“fanciulla elfica” per entrambi) nel legendarium: Lúthien è chiamata sia elf-maid sia elf-maiden. Morwen (madre di Túrin), sebbene umana, aveva l’epiteto Eledhwen, che significa elf-maiden. Galadriel in un’occasione è chiamata Elf-lady “Signora degli Elfi”. Si diceva che la figlia di Sam, Elanor, assomigliasse più a una fanciulla elfica che a uno hobbit. Il nome della tomba di Finduilas, Haudh-en-Elleth, cioè “the Mound of the Elf-maid” (il “Tumulo della Fanciulla elfica”). In tutti questi casi, però, c’è una motivazione importante. Il termine elf-maid in questo contesto è un termine arcaico che indica non semplicemente un’elfa, ma “una giovane elfa nubile”, per enfatizzare la bellezza e la grazia delle elfe, spesso associandole a un senso idealizzato di femminilità. L'uso di questo specifico termine si collega anche ai temi più ampi della sua opera, tra cui il loro ruolo unico nel suo mondo, il contrasto tra elfi immortali e uomini mortali, il passare del tempo e la fine dell’influenza elfica nella Terra di Mezzo. Insomma, un uso ponderato della parola, solo quando serve a sottolineare un aspetto specifico. Un buon esempio è Arwen nel Signore degli Anelli: è la figlia di Elrond, un esempio significativo di fanciulla elfica. Dopo l’inizio della sua relazione con Aragorn, viene spesso chiamata “Arwen Stella del Vespro” o semplicemente "Arwen", ma il termine elf-maid è usato per descriverla prima del suo matrimonio.
Lo stesso vale per il brano tratto da From Laws and Customs among the Eldar che descrive la società e le usanze degli Elfi: «In all such things not concerned with the bringing forth of children, the neri and nissi (that is, the men and women) of the Eldar are equal… there was less difference in strength and speed between elven-men and elven-women that had not borne child than is seen among mortals». L’autore sta riflettendo sulle differenze di genere, che tra i giovani non sposati sono veramente minime. Per correttezza, abbiamo in questo caso un termine diverso a seconda del genere, che rispettivamente al singolare è nêr e nissë, elfo ed elfa.
Nel passaggio all’italiano, i traduttori si sono trovati davanti a un dilemma:
Così, la prima traduzione del Signore degli Anelli (di Vittoria Alliata e Quirino Principe) ha usato elfo anche per le donne elfiche, specificando il genere tramite aggettivi e contesto (es. “una donna elfo”). Ma col tempo, nell'uso comune, è emersa e si è affermata la forma “Elfa” come femminile diretto e trasparente. A oltre 70 anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, il termine elfa oggi è largamente usato soprattutto nella letteratura fantasy italiana, nei giochi di ruolo (D&D, Pathfinder), nei videogiochi (Skyrim, Dragon Age, Baldur’s Gate) e nei fandom legati a Tolkien (anche in ambito accademico). Ormai “elfa” è una forma corretta, moderna e pienamente accettata.
Alcuni dizionari aggiornati registrano elfa come sostantivo femminile autonomo. E questo vale anche per tutti gli scritti di Tolkien in italiano. Già nel 2003 nel Dizionario dell’Universo di J.R.R. Tolkien i nomi Amarië, Elenwë, Eärwen e Indis sono tutti definiti con il termine “elfa”.
Le sole resistenze in questo senso provengono da chi è legato alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, in cui nel primo capitolo uno dei Nazgûl si rivolge ad Arwen dicendo: «Dacci il Mezzuomo, Elfo femmina”. Il doppiaggio riprende l’originale «Give us the Halfling, She-Elf».
La scena è però apocrifa, perché Tolkien non solo non usa mai il termine “She-Elf”, ma proprio non racconta l’episodio in quel modo, non essendo Arwen presente, e essendo Frodo portato in salvo dall’elfo Glorfindel.
La scelta tra “elfo femmina” e “elfa” non è solo una questione di lessico, ma riflette il modo in cui la lingua evolve per rispecchiare i mondi immaginari che abitiamo e costruiamo. Se Tolkien, scrivendo in inglese, poteva contare su un termine neutro e flessibile come elf, i traduttori e lettori italiani hanno sentito il bisogno di una forma più naturale, che desse piena identità anche alle figure femminili del popolo elfico.
“Elfa” oggi non è solo un adattamento moderno, ma un segno di come mito, letteratura e lingua si intreccino. È una parola che nasce da un’esigenza narrativa e culturale, e che ormai ha trovato piena cittadinanza nell’immaginario collettivo.
Nel mondo reale come in quello della Terra di Mezzo, le parole contano. E scegliere di dire “elfa” significa anche riconoscere la dignità linguistica e simbolica di un personaggio, di un ruolo e di una visione del fantastico sempre più inclusiva e precisa.
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La piccola avventura olandese di J.R.R. Tolkien tra una zuppa di “vermi”, pipe d’argilla e duecento fan entusiasti.
Quando si pensa all’autore del Signore degli Anelli, JRR Tolkien, si immagina subito un serio professore pronto a sottolineare ogni nostro errore di grammatica e persino a bocciarci! Ma lo scrittore era tutto il contrario, sempre disponibile a smettere i panni dell’università, per correre al pub a bere e disquisire di rugby, politica, libri e tutto quel che gli passava per la testa!
Se non ci credete, ecco una storia da leggere davanti a una tazza di tè o magari una buona pinta hobbit!
Nella primavera del 1958, Tolkien si ritrovò in un’avventura che, pur senza draghi o anelli magici, avrebbe fatto sorridere anche Bilbo Baggins. Lo scrittore inglese era stato invitato a una vera e propria “cena Hobbit”, organizzata dalla libreria Voorhoeve en Dietrich, che aveva contribuito a diffondere la Terra di Mezzo anche nei Paesi Bassi. Alla fine di marzo di quell’anno, il tempo era tutto fuorché da Contea: una nebbia fredda e una pioggerella insistente accompagnavano il viaggio di Tolkien verso i Paesi Bassi. Ma come per magia – o forse per una qualche simpatia elfica del meteo – non appena il treno si avvicinò a Rotterdam, il cielo si aprì. Il sole cominciò a splendere e non smise per due interi giorni, quasi a voler accogliere l’autore del Signore degli Anelli con il tepore che si riserva a un vecchio amico. Miracoli meteo? No, solo l’inizio di quella che sarebbe diventata una delle parentesi più singolari e affettuosamente bizzarre della vita pubblica del professore di Oxford. Tra la folla che accoglieva il suo treno alla stazione, Tolkien riuscì subito a individuare il suo contatto: il signor Ouboter, che agitava una copia del Signore degli Anelli come fosse uno stendardo di Gondor. Un gesto semplice, ma efficace. Tolkien lo trovò subito simpatico e intelligente.
La sera, tra le portate del sontuoso banchetto, una in particolare aveva scatenato l’ilarità generale: la famigerata Zuppa di Maggot – un nome che in inglese fa sobbalzare chiunque non sia abituato all’umorismo tolkieniano: . Chi conosce l’inglese sa che “maggot” vuol dire “verme”, e il povero Ouboter, inconsapevole del doppio significato, l’aveva scelta come omaggio al contadino Maggot, personaggio secondario e un po’ burbero, ma onesto, del primo capitolo della Compagnia dell’Anello. In realtà, la zuppa era un’innocente e prelibata crema di funghi. Ma ormai la frittata era fatta – o meglio, la zuppa servita – e le risate partite. Ouboter, pur se un po’ imbarazzato, la prese con filosofia. Tolkien stesso si fece una risata: del resto, che razza di cena hobbit sarebbe stata senza qualche scivolone linguistico?
Rotterdam, nel 1958, non era esattamente una città da cartolina. Ancora segnata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, offriva scenari di squallore e ricostruzione, spesso disumanizzante. Tolkien ne fu colpito: «Penso che sia stata la frattura tra questo mondo squallido con la sua ricostruzione gigantesca e ampiamente de-umanizzata, e i gusti naturali e ancestrali degli olandesi, a fare sì che, specialmente a Rotterdam, essi siano quasi inebriati dagli hobbit!».
Infatti, la cena fu un successo travolgente. Oltre 200 persone – per lo più lettori appassionati, non accademici – avevano pagato per partecipare. Altri furono addirittura respinti per mancanza di posti. L’atmosfera era carica di entusiasmo e di pipe fumanti, letteralmente. In Olanda, terra dove l'erba pipa è quasi una religione, Tolkien trovò un pubblico adorante, incuriosito più dagli hobbit che da elfi o draghi. «Parlavano quasi solo degli hobbit», ricorda. E non a caso: in un Paese in ricostruzione, ancora ferito dalla guerra, la semplicità e la genuinità degli Hobbit offrivano una via di fuga poetica.
Durante la serata, la cena è stata certamente “abbondante e prolungata”, dato che tra le portate erano inframezzati i discorsi, tutti in inglese. Tolkien, pur non amante della retorica, ascoltò con pazienza elogi a volte anche un po’ troppo entusiasti. Tranne uno: un misterioso psicologo – in realtà un grafologo – con tutta una serie di idee un po’ bislacche sul Signore degli Anelli, che fu saggiamente congedato dopo cinque minuti da un presidente di serata che, si può dire, conosceva bene l’arte di Frodo: agire con discrezione nei momenti più delicati.
Alla fine, Tolkien chiuse la serata con una replica, ispirata al celebre discorso di Bilbo nel giorno del suo compleanno: «Conosco metà di voi solo a metà, e nutro per meno della metà di voi metà dell'affetto che meritate…». Una parodia, certo, ma anche un omaggio scherzoso e affettuoso.
E poi, come in ogni buona festa hobbit, arrivò il tabacco. Ogni tavolo venne decorato con pipe di argilla e barattoli di tabacco – grossi, sottolinea Tolkien – provenienti, pare, dalla ditta Van Rossem. Ma la cosa più incredibile erano i manifesti pubblicitari, appesi alle pareti con frasi che sembravano uscite da Brea: «Erba pipa per gli Hobbit. In tre qualità: Foglia di Pianilungone, Vecchio Tobia e Stella del Sud». Una campagna di marketing che avrebbe fatto impallidire anche il miglior mercante di Gran Burrone.
E la generosità olandese non finì lì. Qualche tempo dopo, Van Rossem decise di ringraziare il Professore a modo suo: gli spedì un pacco pieno di pipe e tabacco in omaggio. E così, nella sua nebbiosa Oxford, Tolkien poté accendersi una pipa da hobbit, ricordando quella strana, affettuosa, inaspettata avventura nei Paesi Bassi.
Questa piccola avventura in terra olandese ci mostra un Tolkien diverso: è un aneddoto molto umano, poetico e a tratti comico su come la fantasia possa accendere l’entusiasmo anche nei tempi più grigi. Un piccolo capitolo nella vita di Tolkien che sembra uscito dalle sue stesse pagine: pioggia, sole, risate, pasticci linguistici e un mondo – reale – che assomiglia sorprendentemente alla Contea.
Questa e mille altre curiosità si possono trovare nel nostro saggio Un anno con Tolkien, di Roberto Arduini e Cecilia Barella.
Come tutti gli appassionati di Tolkien già sanno, il vizio segreto dell’autore de “Lo Hobbit”, “Il Signore degli Anelli” e “Il Silmarillion” era solo (si fa per dire) quello di inventare linguaggi.
Tale era l’amore di Tolkien per questa attività, non scordiamoci che era professore di filologia, che in una lettera scritta immediatamente dopo la pubblicazione del “Signore degli Anelli” ebbe a dire: «Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. […] Per me, infatti, [il Signore degli anelli] è soprattutto un saggio di “estetica linguistica”, come a volte dico a chi mi chiede “di che cosa tratta?”» (Lettera n. 165). Benché questa affermazione fosse una vera e propria dichiarazione di precedenza della linguistica sulla narrativa, Tolkien si lamentava che poche persone lo prendessero sul serio: «Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo nel quale una forma di linguaggio che vada d’accordo con i miei principi estetici sembri reale. Ma è vero.» (Lettera n. 205).
È quindi comprensibile come il professore di Oxford abbia anche inventato numerosi linguaggi, dotati di lessico, grammatica e sintassi propri, tutti sapientemente da lui collegati in uno schema unico, che si evolve nel tempo e con reciproche connessioni, che ricorda molto da vicino le lingue del mondo reale. Le due lingue elfiche maggiormente conosciute sono il Quenya, la lingua degli elfi del perduto Ovest, e il Sindarin, la lingua degli Elfi della Terra di Mezzo.
Il Quenya in particolare, nella Terza Era non era più parlato quotidianamente dagli Elfi, ma è la lingua dotta e sapienziale, una sorta di “Latino elfico”. Fu Rúmil, un erudito Elfo Noldor di Tirion, a inventare il primo sistema di registrazione scritta, nel 1179 E.A.43. Nei testi tolkieniani viene chiamato “Alfabeto di Rúmil” o “Tengwar di Rúmil” (o, più specificamente, Sarati, dal Q. sarat, “segno, incisione”). Nel 1250 E.A. Feanor migliora questo sistema, inventando le lettere che diverranno poi universalmente note come tengwar. Rispetto al Sarati, il Tengwar perde il verso di scrittura verticale, mantenendo però la libertà di scorrere da sinistra a destra o viceversa, a seconda di quale mano impugni la penna. Feanor, tuttavia, aveva ideato la forma delle lettere ipotizzando di usare la destra, e quindi procedendo da sinistra a destra. In entrambe le scritture manca la differenziazione fra maiuscolo e minuscolo: come in tutte le scritture formali a mano storiche del mondo primario, si possono enfatizzare le iniziali e i capilettera usando glifi di grandi dimensioni, ornati o miniati.
A ben vedere, questo sistema non potrebbe nemmeno essere definito un alfabeto nel vero senso della parola. Tolkien stesso scrive infatti che: «Questo documento non era in origine un “alfabeto”: cioè una serie casuale di lettere, ciascuna con un proprio valore indipendente, recitate secondo un ordine tradizionale privo di nessi con la loro forma e funzione. Era propriamente un sistema di segni consonantici, di forme e stile simili, adattabili per scelta o convenienza per rappresentare le consonanti di lingue esaminate (o inventate) dagli Eldar. Nessuna lettera aveva di per sé un valore fisso; ma certi rapporti tra di esse gradualmente emersero» (Appendice E).
Fintanto che le due varianti del Quenya, Vanyarin e Noldorin, rimasero abbastanza simili, si continuò a usare il modo originale feanoriano, seppure con alcune varianti più adatte alle parlate dei due clan. Quando però i Vanyar abbandonarono Tirion per andare a vivere sulle pendici del Taniquetil, il divario fra i due dialetti iniziò ad approfondirsi. I Noldor idearono quindi un nuovo metodo di scrittura, chiamato Parmaquestarin, che tuttavia poteva ancora essere usato dai Vanyar.
Con l’avvento della Terza Era si impone nella Terra di Mezzo l’uso del Sôval Phâre. Anche questa lingua veniva scritta con le tengwar. In seguito alla decisione di Tolkien di rendere sempre, nel Signore degli Anelli, tale linguaggio con l’inglese, non si hanno esempi di testi scritti in modo Ovestron. Sono state avanzate le proposte79 che il modo fosse ómatehtar CV o VC. Era più che altro usato a Gondor e nel regno meridionale.
Il Quenya e il Sindarin non erano ovviamente stati dimenticati. Oltre agli Elfi ancora stanziati nella Terra di Mezzo (Elrond a Imladris, Galadriel e Celeborn a Lotlórien, e Thranduil in Boscoatro), le élites politiche e culturali umane conoscevano entrambi i linguaggi. Bilbo, ad esempio, sapeva parlare questi idiomi con padronanza, tanto da non sfigurare alla corte di Elrond, e Frodo dà sfoggio dell’uso del Quenya con la compagnia di Gildor Inglorion.
In questa Era, il Quenya aveva ormai fissato la sua forma, anche perché ormai lingua non più viva (viene definita da Tolkien “latino elfico”, come detto), per cui pure la modalità di scrittura non subì più alcuna variazione. Un esempio può essere Mára Nin Quete Quenya, che significa “Mi piace parlare Quenya”.
L'inesauribile fantasia di J.R.R. Tolkien non ha prodotto soltanto i numerosi linguaggi di Elfi, Nani, Uomini e Orchi, ma ha anche dotato ìqueste lingue di alfabeti propri. Forse molti conoscono già le rune, mentre i caratteri elfici veri e propri prendono il nome di tengwar. In questo libro, Roberto Fontana si addentra in profondità nell'alfabeto Tengwar e nei vari sistemi di scrittura elfici che, come nel mondo reale, seguono un percorso evolutivo nei millenni della storia dei Priminati e degli Uomini, con varietà etniche e regionali. Ai più appassionati amanti delle opere di Tolkien verrà anche proposto di accostarsi alle tecniche calligrafiche per una più completa resa artistica della scrittura Tengwar.
COME SCRIVEVANO GLI ELFI?
Cosa sono le Tengwar, e cosa i Cirth?
In che modo scrivevano gli Elfi e le altre creature del mondo di Tolkien?
Si può parlare di calligrafia elfica?
Chi è l’autore?
Roberto Fontana è ingegnere nucleare, professore di matematica e fisica in pensione ed è saggista e scrittore. Appassionato lettore di Tolkien, è noto sia in Italia che all’estero come autore e saggista di fantasy.
Calligrafo egli stesso, è esperto delle lingue e delle calligrafie della Terra di Mezzo. Il suo saggio Guida per viaggiatori nella Terra di Mezzo è una vera e propria guida turistica alle contrade di Arda, il mondo secondario del legendarium tolkieniano. Le sue ultime pubblicazioni sono state Canti e preghiere della Terra di Mezzo. Oltre che saggista, si è anche dedicato alla narrativa e ha pubblicato un’antologia di racconti fantastici.
Ma soprattutto, dopo 15 anni di studio e di esperienza nel campo della calligrafia Tengwar (quella inventata da Tolkien per i suoi Elfi, come scritto), ecco un volume su questa affascinante creazione della fantasia. Come scrivevano gli Elfi, manuale di calligrafia Tengwar.
Il volume di Roberto Fontana si può cliccare qui per averlo!
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