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Sono più di quarant’anni che la critica tolkieniana si interroga sul ruolo delle figure femminili nello Hobbit e nelle opere di Tolkien. Le posizioni della critica internazionale sulla questione femminile sono mutate nel tempo: le prime violente critiche degli anni Settanta hanno ceduto lentamente il posto alla riflessione sui testi, evolvendosi e stemperandosi con la progressiva pubblicazione di sempre nuove opere dell’autore.

È smentita l’idea superficiale che le donne svolgano un ruolo marginale nei romanzi e soprattutto lo scrittore inglese indagò l’animo femminile, presentando una galleria di personaggi che vanno dalla semplice vittima degli eventi fino alla leader di un intero popolo, che da lei prenderà il suo nome, passando attraverso i numerosi rapporti amorosi e coniugali non sempre idilliaci e talvolta conflittuali tra i personaggi delle sue opere. Non solo, il ruolo delle donne nelle opere di Tolkien va a intersecare molte tematiche a lui care ed è da lui usato come mezzo esemplificativo del conflitto e della sintesi che possono avere questioni come l’opposizione tra luce e ombra, l’immortalità degli Elfi, il comando e l’esercizio del potere.

Le figure femminili stereotipate erano tipiche della letteratura di fine Ottocento, come in William Morris. Dopo Tolkien le figure femminili non sono più le stesse, anche se non interessa l’introspezione ma come reagiscono, muovendosi su un fondale: è importante come agiscono e contribuiscono al dipanarsi della storia. L’intenzione palese di Tolkien è rifarsi alla tradizione vittoriana.

Le storie d’amore nella narrativa tolkieniana sono tante, e vanno a comporre una sorta di meta-racconto, sfaccettato e complesso. La vicenda di Aragorn e Arwen allude a quella più antica di Beren e Lúthien, i cui nomi campeggiano sulle lapidi dei coniugi Tolkien, sotto quelli di battesimo, al Wolvercote Cemetery di Oxford. Anche in questo caso si tratta di un uomo mortale e un’elfa immortale, ostacolati dal destino, ma determinati a cambiarlo pur di restare assieme. Il sentimento che li unisce è talmente forte da commuovere i Valar, i quali, alla morte di Beren, offrono a Lúthien la possibilità di far rivivere il proprio innamorato, a condizione che lei accetti di condividerne poi il destino mortale. È la scelta di Lúthien, appunto, che riecheggerà in quella più drammatica di Arwen.

Non tutte le storie sentimentali sono così romantiche. Una delle più singolari è quella tra il gondoriano Faramir e la guerriera Éowyn, che matura mentre sono entrambi convalescenti, dopo essere stati feriti in battaglia. Un amore dolente, crepuscolare, nato mentre i destini del mondo sono incerti e l’orizzonte è tetro. Éowyn aveva amato non corrisposta Aragorn, come si ama un capitano, sognando una fine gloriosa al suo fianco, con le armi in pugno. Ciò nonostante il sentimento di Faramir non è paternalistico, è quello di un uomo che ammira la prodezza e il coraggio di una donna fiera, che rifiuta la pietà di chiunque. E lei non gli dirà un banale “Ti amo”, ma accetterà il suo amore come parte di una scelta di vita opposta a quella perseguita fino ad allora. Alla dichiarazione di Faramir, Éowyn risponde che diventerà una guaritrice, dedicandosi non già all’uccisione e alla gloria che può derivarne, bensì «a tutto ciò che cresce e non è arido», cioè alla vita. E di quella vita fa parte anche l’amore. Questa storia dimostra quanto Tolkien considerasse ambiguo quell’amore cortese che «tende a fare della donna un faro-guida» e che pure lui stesso riconosceva come uno dei più alti ideali della poesia e della cultura medievale, riproposto dal romanticismo. L’idealizzazione della donna distoglie gli occhi dell’uomo «dalle donne così come sono veramente, compagne nelle avversità della vita, e non stelle-guida. […] Fa dimenticare i desideri, i bisogni, le tentazioni delle donne. Inculca la tesi esagerata dell’ “amore vero” come un fuoco che viene dal di fuori, un’esaltazione permanente, che non prende in considerazione gli anni che passano, i figli che arrivano, la vita di tutti i giorni ed è svincolata dalla volontà e dagli obiettivi.» (Lettera 43).

Tolkien, quindi, era un cultore della libertà delle donne e, certo, lo era come lo si poteva essere all’epoca. Éowyn è la principessa che deve mascherarsi da soldato per combatte. Sarà quella che annienta il male, realizzando la profezia che diceva che non sarebbe accaduto per mano di uomo. E effettivamente accade per mano di una donna. Ancora una volta Tolkien ha preso la realtà del suo tempo, la lotta delle suffragette di occupare un ruolo più forte nella società che era cresciuta con la Grande Guerra, quando le donne avevano mandato avanti la nazione con gli uomini al fronte, e l’ha portata in un romanzo. Quando Éowyn parla con Aragorn gli dice: «Ho paura di essere chiusa in una gabbia finché non sarò talmente anziana da non avere voglia di altro».

Arwen ed Éowyn, hanno un ruolo contro la volontà paterna e le leggi sociali. La visione di Tolkien non apporta rivoluzioni, anzi conferma le regole sociali. In Arwen la gerarchia è di stirpe e la scelta di unirsi a un uomo è destinata all’infelicità: la libertà corrisponderà alla morte. In Éowyn, è ancora più marcato l’ordine sociale: serve un’inversione di genere; lei vince non in quanto donna, ma in quanto negazione del maschile. La profezia si realizza per negazione.

Infine, Galadriel è un personaggio fondamentale: è uno dei pochi personaggi che attraversa tutte le tre Ere della Terra di Mezzo ed è presente in moltissime opere le opere tolkieniane – Il Silmarillion, i Racconti incompiuti, il Signore degli Anellie le Lettere – compiendo un’evoluzione psicologica. Il ritratto di Galadriel emerge così in tutta la sua polivalente complessità: l’indomita guerriera del legendarium, che si oppone ai Valar e lascia l’Occidente per combattere Melkor e crearsi un dominio proprio nella Terra di Mezzo, trova coerenza nell’eterea Dama di Lórien del Signore degli Anelli la quale è presentata da Tolkien come «una penitente» che espia l’antica colpa della ribellione ed è infine perdonata «per aver resistito alla tentazione finale e schiacciante di prendere per sé l’Anello» (Lettere, n. 320). Galadriel rifiuta, infatti, il modello di potere in cui l’altro ha l’imperio. Lei è portatrice di luce e una figura che si ricollega ai miti celtici e gallesi. Non c’è il discorso di potere nella scena tra lei e Frodo. Lei ha inoltre su di sé un pericolo supplementare perché è già una portatrice di un anello e se avesse preso l’Unico Anello avrebbe avuto il potenziale di trasformarsi anche lei nella forza malvagia di cui è fatto Sauron. Superata la prova, la regina degli Elfi sta passando il testimone agli Uomini. Gli Elfi se ne andranno e inizierà l’Era degli Uomini nella Terra di Mezzo. Tocca a loro adesso proteggere la Natura e i suoi valori.
In un certo senso, Tolkien sta sfidando anche i lettori a rispondere alla domanda: Tu cosa faresti con la Terra di Mezzo? Fuor di metafora, usi soltanto o sei in armonia con l’ambiente in cui vivi?”.

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