Spedizioni gratuite a partire dai 30€ di acquisto
0
0,00  0 prodotti

Nessun prodotto nel carrello.

Origine del termine “Elfo”

Il nome «elfi» (singolare álfr, plurale álfar) ha radici antiche e affonda nell’etimologia indoeuropea. È collegato alla radice ALBH-, che significa «risplendere» o «essere bianco» (da cui anche il latino albus). Nella mitologia nordica, gli álfar sono una categoria di esseri sovrannaturali dotati di natura divina.
Questa sacralità è confermata sia dalla loro frequente associazione con gli dèi (Æsir e Vanir), sia da fonti che parlano di sacrifici loro dedicati. Le saghe vichinghe, ad esempio, descrivono riti autunnali di carattere privato, officiati da donne, legati alla fertilità. Un’usanza era quella di cospargere con il sangue di un bue i tumuli abitati dagli elfi — una pratica che ricorda le offerte (burro, grasso, monete, spille) lasciate nelle älvkvarnar svedesi, piccole cavità scavate nella pietra risalenti all’Età della Pietra, considerate in passato pietre sacrificali.
Il culto degli elfi ha molti punti in comune con quello delle dísir, divinità femminili legate alla fertilità e alla famiglia. Ciò suggerisce che almeno una parte della figura dell’elfo fosse connessa agli spiriti ancestrali, custodi della stirpe. Non a caso, si credeva che gli elfi dimorassero nei tumuli, come le anime dei defunti. Questo legame con il mondo dei morti è rimasto vivo nel folclore scandinavo.
In origine, il termine era maschile. Tuttavia, le leggende norrene includevano anche figure femminili, come le ljósálfar (“elfe bianche”).

Prima del Novecento, questa parola in italiano non era usata perché elfi, nani e troll sono parte, appunto, delle culture germaniche. Le figure più simili del folclore italiano sono chiamate folletti, spiritelli, gnomi e fate, cioè tutte quelle che chiameremmo ora creature del piccolo popolo.
La prima traduzione integrale italiana del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien uscì nel 1970 (per Rusconi, con traduzione di Alliata e Principe). Il termine elfo in italiano è quindi un calco di traduzione del termine inglese moderno “elf”, che nell’opera di Tolkien si riferisce a figure ben diverse dai folletti e dalle fate. Si tratta di una delle razze principali della Terra di Mezzo, si distinguono dalle altre due razze, gli Uomini e i Nani, soprattutto per la loro immortalità (in realtà è una longevità).

Tolkien utilizza Elf sia al maschile che al femminile. Come scritto, la parola “elf” deriva dal proto-germanico albaz, e nel tempo ha dato origine a termini simili in molte lingue germaniche (tedesco Alp, norreno álfr, inglese antico ælf). La parola inglese elf deriva da un termine anglosassone più spesso attestato come ælf (il cui plurale sarebbe stato *ælfe). Nell’ anglosassone, per gli elfi femminili venivano usate forme separate (come ælfen, a partire dal comune germanico *ɑlβ(i)innjō). Tuttavia, durante il periodo del medio inglese, la parola elfo arrivò abitualmente ad includere anche gli esseri femminili. I principali affini germanici medievali (parole di origine comune) dell'elfo sono alfr in nordico antico, alfar al plurale e alp nell'alto tedesco, alpî al plurale, elpî (accanto a elbe femminile). Queste parole devono essere state ereditate dal ceppo germanico comune, l’antenato della lingua inglese, tedesca e scandinava: si torna così alle forme germaniche comuni accennato all’inizio che devono essere state *ɑlβi-z e ɑlβɑ-z. Queste parole provengono tutte da una base indoeuropea albh-, e sembrano essere collegate all'idea di bianco. La parola germanica presumibilmente in origine significava “persona bianca”, forse come eufemismo. Jakob Grimm pensava che il candore implicasse connotazioni morali positive e, annotando lo ljósálfar di Snorri Sturluson, suggeriva che gli elfi fossero divinità della luce.

Tolkien e il genere degli Elfi

Tolkien, nel suo Legendarium, ha creato un mondo dove gli Elfi sono esseri immortali, esteticamente perfetti, sia maschi che femmine. «… saranno le più belle di tutte le creature terrene, e avranno, concepiranno e partoriranno più bellezza di tutti i miei figli; e avranno la più grande beatitudine in questo mondo», dice l’Ente Supremo, Ilúvatar, nel Silmarillion. In loro risplende ancora la luce delle stelle che ammirarono alla loro nascita e che rappresenta la loro natura divina, la loro connessione con il regno beato di Valinor e il loro ruolo nella storia di Arda. Tolkien infatti descrive gli elfi come creature di una bellezza ultraterrena, con voci melodiose e cristalline, abili in tutte le arti creative, riportando i canoni antichi nella narrativa.

Tuttavia, nei testi in lingua originale, l’autore non distingue tra maschio e femmina nella parola Elf — dal momento che il termine in inglese non ha genere, come d’altronde la stragrande maggioranza dei sostantivi. Sono i nomi propri e i ruoli narrativi a rivelare il genere (es. Galadriel è una elfa, Legolas è un elfo). Ha sempre scritto semplicemente elf anche per personaggi femminili. Ad esempio, nella lettera 345 Tolkien scrive: «Arwen was not an elf, but one of the halt-elven who abandoned her elvish rights» («Arwen non era un’elfa, ma una dei mezzielfi che rinunciò ai suoi diritti elfici»).

Filologo, scrittore e consapevole dell’importanza delle parole, Tolkien per primo ha usato “Ent-wives” per le Entesse, “le mogli degli Ent”, non ha esitato a inventare Shelob come nome proprio di una grande creatura simile a un ragno femmina, combinando la parola inglese “she” (una “femmina”) e la parola dialettale inglese “lob” (“ragno”), giustificando il tutto come un termine in Ovestron (la Lingua Comune) che significa appunto “ragno femmina”. Però non ha mai usato il termine “elvess” o “elfess” (entrambi derivati dall’anglosassone ælfen per indicare le elfe come riportato sopra). Questo perché lo riteneva probabilmente arcaico e soprattutto ridondante. Sicuramente non avrebbe mai utilizzato un termine come “she-Elf” (“elfo femmina”) che è un termine relativamente moderno e informale per riferirsi alle elfe soprattutto in uso nell’inglese americano. 

Tolkien usa, invece, il termine elf-maid o elf-maiden (“fanciulla elfica” per entrambi) nel legendarium: Lúthien è chiamata sia elf-maid sia elf-maiden. Morwen (madre di Túrin), sebbene umana, aveva l’epiteto Eledhwen, che significa elf-maiden. Galadriel in un’occasione è chiamata Elf-lady “Signora degli Elfi”. Si diceva che la figlia di Sam, Elanor, assomigliasse più a una fanciulla elfica che a uno hobbit. Il nome della tomba di Finduilas, Haudh-en-Elleth, cioè “the Mound of the Elf-maid” (il “Tumulo della Fanciulla elfica”). In tutti questi casi, però, c’è una motivazione importante. Il termine elf-maid in questo contesto è un termine arcaico che indica non semplicemente un’elfa, ma “una giovane elfa nubile”, per enfatizzare la bellezza e la grazia delle elfe, spesso associandole a un senso idealizzato di femminilità. L'uso di questo specifico termine si collega anche ai temi più ampi della sua opera, tra cui il loro ruolo unico nel suo mondo, il contrasto tra elfi immortali e uomini mortali, il passare del tempo e la fine dell’influenza elfica nella Terra di Mezzo. Insomma, un uso ponderato della parola, solo quando serve a sottolineare un aspetto specifico. Un buon esempio è Arwen nel Signore degli Anelli: è la figlia di Elrond, un esempio significativo di fanciulla elfica. Dopo l’inizio della sua relazione con Aragorn, viene spesso chiamata “Arwen Stella del Vespro” o semplicemente "Arwen", ma il termine elf-maid è usato per descriverla prima del suo matrimonio.

Lo stesso vale per il brano tratto da From Laws and Customs among the Eldar che descrive la società e le usanze degli Elfi: «In all such things not concerned with the bringing forth of children, the neri and nissi (that is, the men and women) of the Eldar are equal… there was less difference in strength and speed between elven-men and elven-women that had not borne child than is seen among mortals». L’autore sta riflettendo sulle differenze di genere, che tra i giovani non sposati sono veramente minime. Per correttezza, abbiamo in questo caso un termine diverso a seconda del genere, che rispettivamente al singolare è nêr e nissë, elfo ed elfa.

La traduzione italiana e la nascita di “Elfa”

Nel passaggio all’italiano, i traduttori si sono trovati davanti a un dilemma:

  • “Elfo” è un sostantivo maschile.
  • Non esisteva, in origine, un femminile naturale del termine.

Così, la prima traduzione del Signore degli Anelli (di Vittoria Alliata e Quirino Principe) ha usato elfo anche per le donne elfiche, specificando il genere tramite aggettivi e contesto (es. “una donna elfo”). Ma col tempo, nell'uso comune, è emersa e si è affermata la forma “Elfa” come femminile diretto e trasparente. A oltre 70 anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, il termine elfa oggi è largamente usato soprattutto nella letteratura fantasy italiana, nei giochi di ruolo (D&D, Pathfinder), nei videogiochi (Skyrim, Dragon Age, Baldur’s Gate) e nei fandom legati a Tolkien (anche in ambito accademico). Ormai “elfa” è una forma corretta, moderna e pienamente accettata.
Alcuni dizionari aggiornati registrano elfa come sostantivo femminile autonomo. E questo vale anche per tutti gli scritti di Tolkien in italiano. Già nel 2003 nel Dizionario dell’Universo di J.R.R. Tolkien i nomi Amarië, Elenwë, Eärwen e Indis sono tutti definiti con il termine “elfa”.

Le sole resistenze in questo senso provengono da chi è legato alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, in cui nel primo capitolo uno dei Nazgûl si rivolge ad Arwen dicendo: «Dacci il Mezzuomo, Elfo femmina”. Il doppiaggio riprende l’originale «Give us the Halfling, She-Elf».

La scena è però apocrifa, perché Tolkien non solo non usa mai il termine “She-Elf”, ma proprio non racconta l’episodio in quel modo, non essendo Arwen presente, e essendo Frodo portato in salvo dall’elfo Glorfindel.

Conclusione

La scelta tra “elfo femmina” e “elfa” non è solo una questione di lessico, ma riflette il modo in cui la lingua evolve per rispecchiare i mondi immaginari che abitiamo e costruiamo. Se Tolkien, scrivendo in inglese, poteva contare su un termine neutro e flessibile come elf, i traduttori e lettori italiani hanno sentito il bisogno di una forma più naturale, che desse piena identità anche alle figure femminili del popolo elfico.

“Elfa” oggi non è solo un adattamento moderno, ma un segno di come mito, letteratura e lingua si intreccino. È una parola che nasce da un’esigenza narrativa e culturale, e che ormai ha trovato piena cittadinanza nell’immaginario collettivo.

Nel mondo reale come in quello della Terra di Mezzo, le parole contano. E scegliere di dire “elfa” significa anche riconoscere la dignità linguistica e simbolica di un personaggio, di un ruolo e di una visione del fantastico sempre più inclusiva e precisa.

Sei affascinato dal mondo degli Elfi di Tolkien?
Non perderti il nuovo volume dedicato a Galadriel, l'elfa suprema.

La piccola avventura olandese di J.R.R. Tolkien tra una zuppa di “vermi”, pipe d’argilla e duecento fan entusiasti.

Quando si pensa all’autore del Signore degli Anelli, JRR Tolkien, si immagina subito un serio professore pronto a sottolineare ogni nostro errore di grammatica e persino a bocciarci! Ma lo scrittore era tutto il contrario, sempre disponibile a smettere i panni dell’università, per correre al pub a bere e disquisire di rugby, politica, libri e tutto quel che gli passava per la testa!
Se non ci credete, ecco una storia da leggere davanti a una tazza di tè o magari una buona pinta hobbit!

Nella primavera del 1958, Tolkien si ritrovò in un’avventura che, pur senza draghi o anelli magici, avrebbe fatto sorridere anche Bilbo Baggins. Lo scrittore inglese era stato invitato a una vera e propria “cena Hobbit”, organizzata dalla libreria Voorhoeve en Dietrich, che aveva contribuito a diffondere la Terra di Mezzo anche nei Paesi Bassi. Alla fine di marzo di quell’anno, il tempo era tutto fuorché da Contea: una nebbia fredda e una pioggerella insistente accompagnavano il viaggio di Tolkien verso i Paesi Bassi. Ma come per magia – o forse per una qualche simpatia elfica del meteo – non appena il treno si avvicinò a Rotterdam, il cielo si aprì. Il sole cominciò a splendere e non smise per due interi giorni, quasi a voler accogliere l’autore del Signore degli Anelli con il tepore che si riserva a un vecchio amico. Miracoli meteo? No, solo l’inizio di quella che sarebbe diventata una delle parentesi più singolari e affettuosamente bizzarre della vita pubblica del professore di Oxford. Tra la folla che accoglieva il suo treno alla stazione, Tolkien riuscì subito a individuare il suo contatto: il signor Ouboter, che agitava una copia del Signore degli Anelli come fosse uno stendardo di Gondor. Un gesto semplice, ma efficace. Tolkien lo trovò subito simpatico e intelligente.

La sera, tra le portate del sontuoso banchetto, una in particolare aveva scatenato l’ilarità generale: la famigerata Zuppa di Maggot – un nome che in inglese fa sobbalzare chiunque non sia abituato all’umorismo tolkieniano: . Chi conosce l’inglese sa che “maggot” vuol dire “verme”, e il povero Ouboter, inconsapevole del doppio significato, l’aveva scelta come omaggio al contadino Maggot, personaggio secondario e un po’ burbero, ma onesto, del primo capitolo della Compagnia dell’Anello. In realtà, la zuppa era un’innocente e prelibata crema di funghi. Ma ormai la frittata era fatta – o meglio, la zuppa servita – e le risate partite. Ouboter, pur se un po’ imbarazzato, la prese con filosofia. Tolkien stesso si fece una risata: del resto, che razza di cena hobbit sarebbe stata senza qualche scivolone linguistico?

Rotterdam, nel 1958, non era esattamente una città da cartolina. Ancora segnata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, offriva scenari di squallore e ricostruzione, spesso disumanizzante. Tolkien ne fu colpito: «Penso che sia stata la frattura tra questo mondo squallido con la sua ricostruzione gigantesca e ampiamente de-umanizzata, e i gusti naturali e ancestrali degli olandesi, a fare sì che, specialmente a Rotterdam, essi siano quasi inebriati dagli hobbit!».

Infatti, la cena fu un successo travolgente. Oltre 200 persone – per lo più lettori appassionati, non accademici – avevano pagato per partecipare. Altri furono addirittura respinti per mancanza di posti. L’atmosfera era carica di entusiasmo e di pipe fumanti, letteralmente. In Olanda, terra dove l'erba pipa è quasi una religione, Tolkien trovò un pubblico adorante, incuriosito più dagli hobbit che da elfi o draghi. «Parlavano quasi solo degli hobbit», ricorda. E non a caso: in un Paese in ricostruzione, ancora ferito dalla guerra, la semplicità e la genuinità degli Hobbit offrivano una via di fuga poetica.

Durante la serata, la cena è stata certamente “abbondante e prolungata”, dato che tra le portate erano inframezzati i discorsi, tutti in inglese. Tolkien, pur non amante della retorica, ascoltò con pazienza elogi a volte anche un po’ troppo entusiasti. Tranne uno: un misterioso psicologo – in realtà un grafologo – con tutta una serie di idee un po’ bislacche sul Signore degli Anelli, che fu saggiamente congedato dopo cinque minuti da un presidente di serata che, si può dire, conosceva bene l’arte di Frodo: agire con discrezione nei momenti più delicati.
Alla fine, Tolkien chiuse la serata con una replica, ispirata al celebre discorso di Bilbo nel giorno del suo compleanno: «Conosco metà di voi solo a metà, e nutro per meno della metà di voi metà dell'affetto che meritate…». Una parodia, certo, ma anche un omaggio scherzoso e affettuoso.

E poi, come in ogni buona festa hobbit, arrivò il tabacco. Ogni tavolo venne decorato con pipe di argilla e barattoli di tabacco – grossi, sottolinea Tolkien – provenienti, pare, dalla ditta Van Rossem. Ma la cosa più incredibile erano i manifesti pubblicitari, appesi alle pareti con frasi che sembravano uscite da Brea: «Erba pipa per gli Hobbit. In tre qualità: Foglia di Pianilungone, Vecchio Tobia e Stella del Sud». Una campagna di marketing che avrebbe fatto impallidire anche il miglior mercante di Gran Burrone.

E la generosità olandese non finì lì. Qualche tempo dopo, Van Rossem decise di ringraziare il Professore a modo suo: gli spedì un pacco pieno di pipe e tabacco in omaggio. E così, nella sua nebbiosa Oxford, Tolkien poté accendersi una pipa da hobbit, ricordando quella strana, affettuosa, inaspettata avventura nei Paesi Bassi.

Questa piccola avventura in terra olandese ci mostra un Tolkien diverso: è un aneddoto molto umano, poetico e a tratti comico su come la fantasia possa accendere l’entusiasmo anche nei tempi più grigi. Un piccolo capitolo nella vita di Tolkien che sembra uscito dalle sue stesse pagine: pioggia, sole, risate, pasticci linguistici e un mondo – reale – che assomiglia sorprendentemente alla Contea.


Questa e mille altre curiosità si possono trovare nel nostro saggio Un anno con Tolkien, di Roberto Arduini e Cecilia Barella.

Sono più di quarant’anni che la critica tolkieniana si interroga sul ruolo delle figure femminili nello Hobbit e nelle opere di Tolkien. Le posizioni della critica internazionale sulla questione femminile sono mutate nel tempo: le prime violente critiche degli anni Settanta hanno ceduto lentamente il posto alla riflessione sui testi, evolvendosi e stemperandosi con la progressiva pubblicazione di sempre nuove opere dell’autore.

È smentita l’idea superficiale che le donne svolgano un ruolo marginale nei romanzi e soprattutto lo scrittore inglese indagò l’animo femminile, presentando una galleria di personaggi che vanno dalla semplice vittima degli eventi fino alla leader di un intero popolo, che da lei prenderà il suo nome, passando attraverso i numerosi rapporti amorosi e coniugali non sempre idilliaci e talvolta conflittuali tra i personaggi delle sue opere. Non solo, il ruolo delle donne nelle opere di Tolkien va a intersecare molte tematiche a lui care ed è da lui usato come mezzo esemplificativo del conflitto e della sintesi che possono avere questioni come l’opposizione tra luce e ombra, l’immortalità degli Elfi, il comando e l’esercizio del potere.

Le figure femminili stereotipate erano tipiche della letteratura di fine Ottocento, come in William Morris. Dopo Tolkien le figure femminili non sono più le stesse, anche se non interessa l’introspezione ma come reagiscono, muovendosi su un fondale: è importante come agiscono e contribuiscono al dipanarsi della storia. L’intenzione palese di Tolkien è rifarsi alla tradizione vittoriana.

Le storie d’amore nella narrativa tolkieniana sono tante, e vanno a comporre una sorta di meta-racconto, sfaccettato e complesso. La vicenda di Aragorn e Arwen allude a quella più antica di Beren e Lúthien, i cui nomi campeggiano sulle lapidi dei coniugi Tolkien, sotto quelli di battesimo, al Wolvercote Cemetery di Oxford. Anche in questo caso si tratta di un uomo mortale e un’elfa immortale, ostacolati dal destino, ma determinati a cambiarlo pur di restare assieme. Il sentimento che li unisce è talmente forte da commuovere i Valar, i quali, alla morte di Beren, offrono a Lúthien la possibilità di far rivivere il proprio innamorato, a condizione che lei accetti di condividerne poi il destino mortale. È la scelta di Lúthien, appunto, che riecheggerà in quella più drammatica di Arwen.

Non tutte le storie sentimentali sono così romantiche. Una delle più singolari è quella tra il gondoriano Faramir e la guerriera Éowyn, che matura mentre sono entrambi convalescenti, dopo essere stati feriti in battaglia. Un amore dolente, crepuscolare, nato mentre i destini del mondo sono incerti e l’orizzonte è tetro. Éowyn aveva amato non corrisposta Aragorn, come si ama un capitano, sognando una fine gloriosa al suo fianco, con le armi in pugno. Ciò nonostante il sentimento di Faramir non è paternalistico, è quello di un uomo che ammira la prodezza e il coraggio di una donna fiera, che rifiuta la pietà di chiunque. E lei non gli dirà un banale “Ti amo”, ma accetterà il suo amore come parte di una scelta di vita opposta a quella perseguita fino ad allora. Alla dichiarazione di Faramir, Éowyn risponde che diventerà una guaritrice, dedicandosi non già all’uccisione e alla gloria che può derivarne, bensì «a tutto ciò che cresce e non è arido», cioè alla vita. E di quella vita fa parte anche l’amore. Questa storia dimostra quanto Tolkien considerasse ambiguo quell’amore cortese che «tende a fare della donna un faro-guida» e che pure lui stesso riconosceva come uno dei più alti ideali della poesia e della cultura medievale, riproposto dal romanticismo. L’idealizzazione della donna distoglie gli occhi dell’uomo «dalle donne così come sono veramente, compagne nelle avversità della vita, e non stelle-guida. […] Fa dimenticare i desideri, i bisogni, le tentazioni delle donne. Inculca la tesi esagerata dell’ “amore vero” come un fuoco che viene dal di fuori, un’esaltazione permanente, che non prende in considerazione gli anni che passano, i figli che arrivano, la vita di tutti i giorni ed è svincolata dalla volontà e dagli obiettivi.» (Lettera 43).

Tolkien, quindi, era un cultore della libertà delle donne e, certo, lo era come lo si poteva essere all’epoca. Éowyn è la principessa che deve mascherarsi da soldato per combatte. Sarà quella che annienta il male, realizzando la profezia che diceva che non sarebbe accaduto per mano di uomo. E effettivamente accade per mano di una donna. Ancora una volta Tolkien ha preso la realtà del suo tempo, la lotta delle suffragette di occupare un ruolo più forte nella società che era cresciuta con la Grande Guerra, quando le donne avevano mandato avanti la nazione con gli uomini al fronte, e l’ha portata in un romanzo. Quando Éowyn parla con Aragorn gli dice: «Ho paura di essere chiusa in una gabbia finché non sarò talmente anziana da non avere voglia di altro».

Arwen ed Éowyn, hanno un ruolo contro la volontà paterna e le leggi sociali. La visione di Tolkien non apporta rivoluzioni, anzi conferma le regole sociali. In Arwen la gerarchia è di stirpe e la scelta di unirsi a un uomo è destinata all’infelicità: la libertà corrisponderà alla morte. In Éowyn, è ancora più marcato l’ordine sociale: serve un’inversione di genere; lei vince non in quanto donna, ma in quanto negazione del maschile. La profezia si realizza per negazione.

Infine, Galadriel è un personaggio fondamentale: è uno dei pochi personaggi che attraversa tutte le tre Ere della Terra di Mezzo ed è presente in moltissime opere le opere tolkieniane – Il Silmarillion, i Racconti incompiuti, il Signore degli Anellie le Lettere – compiendo un’evoluzione psicologica. Il ritratto di Galadriel emerge così in tutta la sua polivalente complessità: l’indomita guerriera del legendarium, che si oppone ai Valar e lascia l’Occidente per combattere Melkor e crearsi un dominio proprio nella Terra di Mezzo, trova coerenza nell’eterea Dama di Lórien del Signore degli Anelli la quale è presentata da Tolkien come «una penitente» che espia l’antica colpa della ribellione ed è infine perdonata «per aver resistito alla tentazione finale e schiacciante di prendere per sé l’Anello» (Lettere, n. 320). Galadriel rifiuta, infatti, il modello di potere in cui l’altro ha l’imperio. Lei è portatrice di luce e una figura che si ricollega ai miti celtici e gallesi. Non c’è il discorso di potere nella scena tra lei e Frodo. Lei ha inoltre su di sé un pericolo supplementare perché è già una portatrice di un anello e se avesse preso l’Unico Anello avrebbe avuto il potenziale di trasformarsi anche lei nella forza malvagia di cui è fatto Sauron. Superata la prova, la regina degli Elfi sta passando il testimone agli Uomini. Gli Elfi se ne andranno e inizierà l’Era degli Uomini nella Terra di Mezzo. Tocca a loro adesso proteggere la Natura e i suoi valori.
In un certo senso, Tolkien sta sfidando anche i lettori a rispondere alla domanda: Tu cosa faresti con la Terra di Mezzo? Fuor di metafora, usi soltanto o sei in armonia con l’ambiente in cui vivi?”.

Come tutti gli appassionati di Tolkien già sanno, il vizio segreto dell’autore de “Lo Hobbit”, “Il Signore degli Anelli” e “Il Silmarillion” era solo (si fa per dire) quello di inventare linguaggi.

Tale era l’amore di Tolkien per questa attività, non scordiamoci che era professore di filologia, che in una lettera scritta immediatamente dopo la pubblicazione del “Signore degli Anelli” ebbe a dire: «Alla base c’è l’invenzione dei linguaggi. Le “storie” furono create per fornire un mondo ai linguaggi e non il contrario. […] Per me, infatti, [il Signore degli anelli] è soprattutto un saggio di “estetica linguistica”, come a volte dico a chi mi chiede “di che cosa tratta?”» (Lettera n. 165). Benché questa affermazione fosse una vera e propria dichiarazione di precedenza della linguistica sulla narrativa, Tolkien si lamentava che poche persone lo prendessero sul serio: «Nessuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo nel quale una forma di linguaggio che vada d’accordo con i miei principi estetici sembri reale. Ma è vero.» (Lettera n. 205).

È quindi comprensibile come il professore di Oxford abbia anche inventato numerosi linguaggi, dotati di lessico, grammatica e sintassi propri, tutti sapientemente da lui collegati in uno schema unico, che si evolve nel tempo e con reciproche connessioni, che ricorda molto da vicino le lingue del mondo reale. Le due lingue elfiche maggiormente conosciute sono il Quenya, la lingua degli elfi del perduto Ovest, e il Sindarin, la lingua degli Elfi della Terra di Mezzo.

L’evoluzione del Quenya

Il Quenya in particolare, nella Terza Era non era più parlato quotidianamente dagli Elfi, ma è la lingua dotta e sapienziale, una sorta di “Latino elfico”. Fu Rúmil, un erudito Elfo Noldor di Tirion, a inventare il primo sistema di registrazione scritta, nel 1179 E.A.43. Nei testi tolkieniani viene chiamato “Alfabeto di Rúmil” o “Tengwar di Rúmil” (o, più specificamente, Sarati, dal Q. sarat, “segno, incisione”). Nel 1250 E.A. Feanor migliora questo sistema, inventando le lettere che diverranno poi universalmente note come tengwar. Rispetto al Sarati, il Tengwar perde il verso di scrittura verticale, mantenendo però la libertà di scorrere da sinistra a destra o viceversa, a seconda di quale mano impugni la penna. Feanor, tuttavia, aveva ideato la forma delle lettere ipotizzando di usare la destra, e quindi procedendo da sinistra a destra. In entrambe le scritture manca la differenziazione fra maiuscolo e minuscolo: come in tutte le scritture formali a mano storiche del mondo primario, si possono enfatizzare le iniziali e i capilettera usando glifi di grandi dimensioni, ornati o miniati.
A ben vedere, questo sistema non potrebbe nemmeno essere definito un alfabeto nel vero senso della parola. Tolkien stesso scrive infatti che: «Questo documento non era in origine un “alfabeto”: cioè una serie casuale di lettere, ciascuna con un proprio valore indipendente, recitate secondo un ordine tradizionale privo di nessi con la loro forma e funzione. Era propriamente un sistema di segni consonantici, di forme e stile simili, adattabili per scelta o convenienza per rappresentare le consonanti di lingue esaminate (o inventate) dagli Eldar. Nessuna lettera aveva di per sé un valore fisso; ma certi rapporti tra di esse gradualmente emersero» (Appendice E).

Fintanto che le due varianti del Quenya, Vanyarin e Noldorin, rimasero abbastanza simili, si continuò a usare il modo originale feanoriano, seppure con alcune varianti più adatte alle parlate dei due clan. Quando però i Vanyar abbandonarono Tirion per andare a vivere sulle pendici del Taniquetil, il divario fra i due dialetti iniziò ad approfondirsi. I Noldor idearono quindi un nuovo metodo di scrittura, chiamato Parmaquestarin, che tuttavia poteva ancora essere usato dai Vanyar.
Con l’avvento della Terza Era si impone nella Terra di Mezzo l’uso del Sôval Phâre. Anche questa lingua veniva scritta con le tengwar. In seguito alla decisione di Tolkien di rendere sempre, nel Signore degli Anelli, tale linguaggio con l’inglese, non si hanno esempi di testi scritti in modo Ovestron. Sono state avanzate le proposte79 che il modo fosse ómatehtar CV o VC. Era più che altro usato a Gondor e nel regno meridionale.
Il Quenya e il Sindarin non erano ovviamente stati dimenticati. Oltre agli Elfi ancora stanziati nella Terra di Mezzo (Elrond a Imladris, Galadriel e Celeborn a Lotlórien, e Thranduil in Boscoatro), le élites politiche e culturali umane conoscevano entrambi i linguaggi. Bilbo, ad esempio, sapeva parlare questi idiomi con padronanza, tanto da non sfigurare alla corte di Elrond, e Frodo dà sfoggio dell’uso del Quenya con la compagnia di Gildor Inglorion.
In questa Era, il Quenya aveva ormai fissato la sua forma, anche perché ormai lingua non più viva (viene definita da Tolkien “latino elfico”, come detto), per cui pure la modalità di scrittura non subì più alcuna variazione. Un esempio può essere Mára Nin Quete Quenya, che significa “Mi piace parlare Quenya”.

L'inesauribile fantasia di J.R.R. Tolkien non ha prodotto soltanto i numerosi linguaggi di Elfi, Nani, Uomini e Orchi, ma ha anche dotato ìqueste lingue di alfabeti propri. Forse molti conoscono già le rune, mentre i caratteri elfici veri e propri prendono il nome di tengwar. In questo libro, Roberto Fontana si addentra in profondità nell'alfabeto Tengwar e nei vari sistemi di scrittura elfici che, come nel mondo reale, seguono un percorso evolutivo nei millenni della storia dei Priminati e degli Uomini, con varietà etniche e regionali. Ai più appassionati amanti delle opere di Tolkien verrà anche proposto di accostarsi alle tecniche calligrafiche per una più completa resa artistica della scrittura Tengwar.

COME SCRIVEVANO GLI ELFI?

Cosa sono le Tengwar, e cosa i Cirth?
In che modo scrivevano gli Elfi e le altre creature del mondo di Tolkien?
Si può parlare di calligrafia elfica?

Chi è l’autore?
Roberto Fontana è ingegnere nucleare, professore di matematica e fisica in pensione ed è saggista e scrittore. Appassionato lettore di Tolkien, è noto sia in Italia che all’estero come autore e saggista di fantasy.
Calligrafo egli stesso, è esperto delle lingue e delle calligrafie della Terra di Mezzo. Il suo saggio Guida per viaggiatori nella Terra di Mezzo è una vera e propria guida turistica alle contrade di Arda, il mondo secondario del legendarium tolkieniano. Le sue ultime pubblicazioni sono state Canti e preghiere della Terra di Mezzo. Oltre che saggista, si è anche dedicato alla narrativa e ha pubblicato un’antologia di racconti fantastici.
Ma soprattutto, dopo 15 anni di studio e di esperienza nel campo della calligrafia Tengwar (quella inventata da Tolkien per i suoi Elfi, come scritto), ecco un volume su questa affascinante creazione della fantasia. Come scrivevano gli Elfi, manuale di calligrafia Tengwar.

Il volume di Roberto Fontana si può cliccare qui per averlo!

Eterea Edizioni, in collaborazione con l'AIST (Associazione Italiana Studi Tolkieniani) e con  il Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”, promuove un convegno di studi interdisciplinare dal titolo Oralità e scrittura nella Terra di Mezzo. Tradizioni della voce, trasmissioni manoscritte e interpretazioni del Legendarium tolkieniano, per indagare lo statuto e il ruolo dell’oralità e della scrittura nella Terra di Mezzo e inquadrare il loro rapporto all’interno del Mondo Secondario creato da J.R.R. Tolkien.

Gli studiosi interessati possono inviare una proposta di relazione di non oltre 2.000 battute, comprensiva di due o tre fonti bibliografiche di riferimento, entro e non oltre il 30 aprile 2025 all’indirizzo: paolo.pizzimento@unime.it.
La proposta dovrà comprendere un titolo e un abstract, una breve nota biografica dell’autore, un recapito di posta elettronica e un recapito telefonico.

L’accettazione delle proposte di relazione sarà comunicata via posta elettronica agli interessati entro il 15 maggio 2025. Il convegno si terrà in presenza da venerdì 11 a domenica 13 luglio 2025 nei comuni dei Castelli Romani e la partecipazione sarà gratuita.

Convegno Castelli Romani: Igor Baglioni

Nel nostro Mondo Primario, il passaggio dall’oralità alla scrittura e, in seguito, alle moderne tecnologie della comunicazione ha costituito una trasformazione tale da influenzare profondamente la cognizione, la cultura e la società umana. Molti studiosi hanno approfondito la questione: da Milman Parry e Albert Lord, coi loro scritti pionieristici sull’epica orale, a Eric A. Havelock e Paul Zumthor, che hanno indagato il passaggio dall’oralità alla scrittura nell’antica Grecia e nel Medioevo romanzo, fino a Marshall McLuhan e Walter J. Ong, interessati ai profondi cambiamenti culturali innescati dall’evoluzione dei media moderni.

Tolkien, da filologo e studioso di opere letterarie medievali, guardò sempre con grande attenzione alla questione dei rapporti tra oralità e scrittura e la mise a tema nelle sue opere letterarie. Desiderava, ad esempio, che “Il Silmarillion” – così come lo concepiva nella sua mente – assumesse la forma di «una compilazione, un compendio narrativo steso tardivamente sulla scorta di fonti assai diverse (poemi, annali, racconti di tradizione orale) trasmesse per retaggio antichissimo» (Il Silmarillion, p. 6) affinché replicasse o, per dir meglio, ricreasse il carattere essenzialmente “cumulativo” del mito del Mondo Primario.

Come nel Mondo Primario, insomma, anche nel Mondo Secondario di Tolkien quello fra oralità e scrittura è uno degli elementi dialettici su cui si è costruita un’intera cultura. La questione, finora indagata solo in parte dagli studiosi tolkieniani, merita di essere affrontata alla luce di un approccio interdisciplinare consapevole dei recenti sviluppi degli studi sul tema. Gli organizzatori accolgono quindi con favore proposte di relazione che esplorino il ruolo di oralità e scrittura e il loro rapporto nella Terra di Mezzo, in particolare in relazione ai seguenti filoni di ricerca:

  • Le relazioni tra la mitopoiesi tolkieniana e le mitografie del Mondo Primario;
  • La tradizione orale degli Elfi e la sua messa per iscritto nel “Silmarillion”;
  • I sistemi di scrittura della Terra di Mezzo (saratitengwarcirth, etc.);
  • La questione delle voci autoriali e dei punti di vista nel “Silmarillion” progettato da Tolkien e nella sua versione pubblicata;
  • La questione delle voci autoriali e dei punti di vista nello Hobbit e nel Signore degli Anelli;
  • Il Libro Rosso in quanto elemento narrativo e in quanto dispositivo metanarrativo;
  • Le Traduzioni dall’Elfico di Bilbo Baggins e il loro rapporto con il Silmarillion;
  • Biblioteche e archivi della Terra di Mezzo (Valforra, Minas Tirith etc.);
  • La cultura dei popoli «saggi ma incolti» (Il Signore degli Anelli, p. 459);
  • La relazione tra le lingue della Terra di Mezzo e l’inglese utilizzato da Tolkien in quanto “lingua di destinazione”;
  • I proverbi, gli indovinelli e le canzoni della Terra di Mezzo;
  • Questioni di taglio generale su oralità e scrittura che facciano il punto sul dibattito contemporaneo sul tema.

Comitato Scientifico:

Roberto Arduini (Eterea Edizioni, AIST); Igor Baglioni (Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”); Cecilia Barella (Eterea Edizioni, AIST); Alessandro Campus (Università di Roma Tor Vergata); Andrea Ercolani (CNR); Stefano Giorgianni (Traduttore e autore, AIST); Paolo Nardi (Autore e divulgatore, AIST); Oriana Palusci (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”); Paolo Pizzimento (Università degli Studi di Messina, AIST);

Organizzazione:

Roberto Arduini (Eterea Edizioni, AIST); Igor Baglioni (Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni”); Stefano Giorgianni (Traduttore e autore, AIST); Alessandro Leonardi (AIST); Paolo Pizzimento (Università degli Studi di Messina, AIST);

Date da ricordare:

  • Chiusura della Call for Papers: 30 aprile 2025.
  • Comunicazione di accettazione delle proposte: 15 maggio 2025.
  • Convegno: 11-13 luglio 2025.

I partecipanti al convegno potranno alloggiare nelle strutture convenzionate, usufruendo di una riduzione sul normale prezzo di listino delle stesse. Sono previste visite serali gratuite ai musei e ai monumenti dei comuni presenti nell’area dei Castelli Romani. Il programma delle visite sarà reso noto contestualmente al programma del convegno.

È prevista la pubblicazione degli Atti a cura di Eterea Edizioni previa peer review finale delle relazioni.

Per informazioni: paolo.pizzimento@unime.it.

Fonte originale articolo:https://www.jrrtolkien.it/2025/01/21/call-for-papers-oralita-e-scrittura-nella-terra-di-mezzo/

Eterea Edizioni C.F e P.IVA: 14640021003 © 2025. All rights reserved.
© 2024 Mirage Comics. All rights reserved.
Non stavi lasciando il carrello così, vero?

Resta con noi, lettore errante!

Devi pensarci un po'? Lascia il tuo indirizzo email per salvare il carrello! 📚 Lo ritroverai intatto, quando sarai pronto a varcare il portale verso questi nuovi universi fantasy. Ma ricorda… le storie non attendono per sempre.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram