Raccogliamo e volentieri rivolgiamo ad Arthuan Rebis alcune domande dei lettori del suo romanzo Helughèa. Il racconto di una Stella Foglia (Eterea edizioni). Il libro è uscito lo scorso maggio 2023 ed è stato presentato al Salone del Libro di Torino, poi, ad oggi, a Sarzana, Lucca, Genzano di Roma.
Buona parte del romanzo è ambientata nel mondo fantastico di Helu, che di fatto sembra una dimensione più sottile e parallela alla nostra, in cui alcuni umani hanno avuto la sorte, o il merito, di poter entrare.
Il popolo che abita quel regno, gli Heludin, ha una propria lingua, che ha un suono molto evocativo e quasi ipnotico – ne è un esempio “Katahelu”, il canto in lingua heludin che troviamo nel romanzo e nell’album musicale che lo completa, Canti di Helughèa.
Nel corso della narrazione, i significati della lingua heludin saranno sempre più chiari per il protagonista, man mano che procede il suo percorso di comprensione della propria storia e di ciò che lo circonda.
D: Sei un musicista, il tuo linguaggio privilegiato è la musica, che non ha bisogno di traduzioni perché parla direttamente all’anima. Nel tuo romanzo Helughèa hai affrontato l’invenzione di una lingua, vuoi spiegarci da cosa nasce questa esigenza? Qual è l’origine della lingua e dei nomi degli Heludin? Quali lingue o concetti hanno stimolato l’autore di Helughèa?
R: Il Regno di Helu è un mondo contiguo al nostro (quello di Ghèa), i due sono separati dalla Soglia. Così gli Heludin da sempre scrutano cosa accade tra gli umani, ricevendo tutte le ausiliari informazioni dai Baudril (gli Alberi della Soglia). Questi esseri si presentano perciò come custodi della nostra conoscenza (anche di quella perduta) e padroneggiano le lingue umane. La loro lingua si presenta come una quintessenza delle nostre, e potrebbe sembrare derivativa, ma nel romanzo non è così. Come essi stessi spiegano, il loro è un idioma in cui la sillaba e l’insieme delle sillabe che formano una parola evocano in maniera molto diretta l’essenza energetica dell’oggetto indicato.
Le lingue umane arcaiche, generatesi attraverso popoli che vivevano in sintonia con natura, appaiono più vicine a questa originaria corrispondenza. Ad esempio, presso i sacerdoti dell’Antico Egitto il “cantare incantare” si basava su questo principio, e c’era questa aspirazione anche nel linguaggio enochiano millenni dopo. Qualcosa di simile troviamo anche nel concetto di incantesimo bardico. In origine certe parole sono emerse “naturalmente” grazie anche alle risonanze strutturali del composto fisico umano. Il più banale degli esempi: “mother”, “madre”, “maya”, dove alla radice vi è un suono neutrale emesso a bocca chiusa, che si trasforma automaticamente in MA aprendo la bocca senza bisogno di espellere molto fiato. L’inverso è “AUM” (OM). In un modo o nell’altro certe sonorità sono connesse alla “generazione”. La sillaba AM è presente in versione mantrica anche nell’incantesimo di Amergin, una poesia celtica che si perde nella notte dei tempi, in cui l’essere (AM) muta costantemente, senza confini di corpo in corpo. Un altro esempio, in coincidentia oppositorum: “father”, “padre”, patr”, dove le sillabe PHA, FA, PA, evocano un’energia penetrante e attiva come una freccia d’aria che semina. Gli esempi da fare sarebbero moltissimi.
Il mio studio sulle lingue si basa su questo approccio, energetico, laddove l’energia non è un qualcosa di trascendentale, ma è linfa della manifestazione e dell’intenzione. È quindi un approccio sonoro comparativo fondato sull’ambizione di inabissarsi nel vortice dei simboli. Gli Heludin scrutano tutto attraverso le lenti di due energie apparentemente opposte: Khelu e Muru. Questo permette due approcci diversi, uno omeopatico e uno allopatico. Tesi e antitesi. I simili che si curano con i simili e i contrari che si curano con i contrari. Ma non solo: si tratta di due strumenti, uno che tende a servirsi dell’opposizione e uno che spinge verso la trascendenza del duale. Queste due metodologie permeano le vicende narrative, le leggi fisiche, i nodi emotivi e gli scontri epici, ma anche il mio stesso approccio nello strumentalizzare musiche, stili narrativi e strutture drammaturgiche che si ripetono a livelli sempre più dinamizzati.
Tornando all’etimologia energetica: anche i movimenti dell’apparato vocale, della bocca e del respiro di un umano determinano certe caratteristiche sillabiche: passivo/attivo; maschile/femminile; lunare/solare, irato/pacifico e così via, con tutte le dinamiche intermedie possibili.
Certe sillabe radice mettono in scena una ricostruzione del macrocosmo e del microcosmo, un teatro dei cicli naturali, di corrispondenze elementali, astrali, animali, vegetali e psichiche. Lo studio e l’interiorizzazione delle Rune (manifestazione visiva dei simboli sonori primordiali) stimola un filtro intuitivo attraverso cui osservare. Questo emerge anche nei poemi runici e nei versi scaldici.
Il mio approccio alla creazione di lingue è affascinato e influenzato dallo studio della funzione delle sillabe nella cultura indo-tibetana, dove certe sillabe sacre, tra le varie funzioni, rappresentano anche strutture energetiche fondamentali.
D: Gli Heludin chiamano il nostro mondo Ghèa: «Ghèa è il nome che abbiamo dato al vostro pianeta. Ti suona familiare forse perché anche i greci lo hanno chiamato così. Nella tua lingua è più comune il termine Gaia.» Nel romanzo parli anche di parentele linguistiche.
R: In alcuni casi infatti gli Heludin si vantano di aver influenzato le lingue, le scienze e le arti umane, per mezzo di “viaggiatori”. Alcuni di questi sono molto noti nella cultura artistica e spirituale dei nostri Oriente e Occidente; si tratta di individui che sono andati dall’altra parte e che hanno conservato delle memorie di questi peregrinaggi oltre la Soglia. Ma gli stessi figli di Helu spiegano anche che ci sono corrispondenze tra le energie delle sette porte e tra quelle che radicano nelle cose manifeste. Tali segni corrispondono con quelli usati dagli alchimisti per cercare di rivelare i misteri di Natura.
Si tratta di un campo morfo-energetico.
D: “Mente” è una parola che nel romanzo appare spesso insieme a “lingua”. Helughèa, infatti, ci mostra anche una forma superiore di linguaggio: la trasmissione del pensiero, o telepatia. Avviene a metà circa del romanzo, e soprattutto verso la fine, quando la sensibilità del protagonista è affinata dal percorso di conoscenza che ha compiuto e anche dall’empatia (“cuore” è un’altra parola ricorrente).
R: Anche in questo caso ci sono influenze di studi relativi alle filosofie orientali.
La nostra consapevolezza può essere diretta e concentrarsi su un oggetto, come una sonda può spostarsi nel corpo, nei sensi, nelle percezioni, nei suoni esteriori; viaggiare nel tempo dei ricordi senza lasciarsi coinvolgere; sorgere in un corpo di sogno; ma ogni esperienza esterna o interna è filtrata dagli strumenti della mente stessa, la quale tendenzialmente si afferra ai fenomeni e alle esperienze con un approccio separatista, oggettivante che può essere gradualmente superato a volte.
Alla base di ogni conflitto c’è un muro che l’esistenza stessa ci spinge a creare automaticamente: una Soglia. Passo dopo passo i protagonisti cercano di sciogliere le sofferenze individuali e collettive, espandendo i confini e la portata della loro missione.
Quando la mente si fa più sottile allora il linguaggio viene trasceso, la comprensione intellettuale e razionale viene bypassata privilegiando il mezzo simbolico, creativo, ed empatico come canale.
La Heludin Custode ha straordinarie capacità psichiche, ma anche un essere corrotto può averle. Quello che la nobilita sono l’amore e la saggezza. La mente quando è in armonia nella sede del cuore.